Arrivo all’Elba
Nunzia e Gio’ sono sull’Isola d’Elba da domenica. Settembre, anno 2017 ed è la prima volta che ci vengono. Per molti anni hanno goduto di meravigliose vacanze in Corsica, prezioso scrigno di Provenza adagiato nel mare, a detta di lei, innamorata di un certo sud francese e che sogna da anni il trasferimento in un caro borgo presso il lago di Sainte Croix, con puntate corsare in quel di Campomoro nel Golfo del Valinco.
Mica male, progetto indubbiamente interessante.
Sono partiti da Piombino, provincia di Livorno; il traghetto è veloce, neanche un’ora e la terra elbana appare in tutta la sua lunghezza. Il primo impatto non è però positivo: da lontano ecco “Portoferaio” (come dicono qui eliminando le doppie) che si presenta con un doppio obbrobrio e cioè due altissimi condomini guardanti irriverenti e sprezzanti il traghetto che sta attraccando. A lei verrebbe di far loro le boccacce, ma ha compassione della vecchia cittadina che si distende con rassegnazione intorno al Golfo. “Un contrasto orrendo” dice lui - se Sgarbi fosse qui potremmo fare un bel coro insieme capre, capre, capre...
Il confronto con l’arrivo a Bastia viene naturale; ora poi che hanno ridipinto le vecchie case sul porto con colori pastello, la città corsara sembra venirti incontro con dolcezza. Certamente anche a Bastia vi è una nuova zona periferica con edifici contemporanei, ma risulta interna e un po’ appartata; loro stessi, la moglie ed il marito, ricordano di aver alloggiato per una notte in un Hotel di nuovissima costruzione in quella zona. Quest’anno sono all’Elba e non ha proprio alcun senso fare inutili paragoni e del resto sarebbe proprio da ignoranti non apprezzare le sette sorelle dell’Arcipelago toscano. Questi pochi scritti sull’Isola d’Elba non le rendono certo giustizia. Un luogo, per amarlo e comprenderlo, bisogna frequentarlo per anni, in due settimane non pretendono di cominciare ad amarla, soprattutto non avendo a lungo camminato lungo i vari itinerari proposti dalle guide. Sono venuti all’Elba per riposare!
Al Giglio, una delle sorelle belle dell’Arcipelago, località Campese, hanno soggiornato alcune estati ed hanno un vivido ricordo di un elettrizzante ed un poco patetica gita in motoscafo con scoglio di mezzo, l’anno prima che la Concordia facesse quel danno che ha fatto, anch’essa alle prese con un pezzo di granito di ben altre dimensioni.
Che tristezza dover associare l’isola dal nome così floreale (ma Giglio deriva da higilium, capra) con il naufragio di una nave crociera di quella stazza dove morirono 32 persone ed altre 157 rimasero ferite! Che ressa di pensierosi collegamenti inonda la testa sempre un po’ malinconica di lei...ora sta pensando che Sgarbi potrebbe essere un po’ più poetico ed invece di gridare capra, capra, capra, potrebbe gridare giglio, giglio, giglio... Non riesce proprio a lasciarsi andare, a prendere quello che viene senza tirare in ballo sempre la Rava e la Fava.
Tornando alla Corsica, la patria di Napoleone anzitutto è più grande, ci sono montagne che raggiungono i milleottocento metri, c’è molta acqua dolce, fiumi, laghetti…ma non avevamo detto basta paragoni?
Napoleone Bonaparte ha lasciato molti segni del suo passaggio all’Elba,
un periodo di soli dieci mesi, ma, conoscendo il tipo...guardate che personalità traspare da queste immagini! Spoliazioni di opere d’arte qui non deve averne fatte, a Firenze il bottino era stato già alquanto ricco e prezioso.
Non c’è rimedio, si susseguono a ruota libera i bip nella mente di lei mentre risalgono in auto per raggiungere Marina di Campo dove, presso l’agenzia, ritireranno le chiavi della casetta dove alloggeranno.
“Quindi l’Isola d’Elba da rurale e mineraria si è votata al turismo - continua pensando ad alta voce - fino agli anni ottanta la popolazione era dedita all’estrazione del ferro, del granito, coltivazioni agricole, soprattutto vitigni sui ripidi terrazzamenti, allevamento pecore, capre forse, anche alla pesca, ma in misura minore”. “Su, non cominciare a vivisezionare il luogo - ribatte lui- lasciati andare alla vacanza di cielo e mare”.
Già.
Eccoli i due turisti alla spiaggia di Fetovaia dove si devono incontrare con i loro figli e nipoti che, quest’anno, hanno scelto il mare dell’ Elba per le vacanze.
Si guardano intorno il pa’ e la ma’, ovvero il nonno e la nonna, a destra ed a sinistra girano il capo in questa specie di Rimini: dove cavolo si sono cacciati nella moltitudine infinita di teste ed ombrelloni e lettini, proprio non riescono ad individuarli. La prima immagine che si presenta agli occhi di lei è quella delle settimane di vacanze trascorse a Igea Marina, riviera romagnola, dove suo padre li accompagnava lei la nonna ed il fratello la domenica mattina per tornare, povero lui, la sera stessa. La madre raramente poteva andare: essendo ostetrica comunale, gestiva le sue ferie a seconda… diciamo così ... delle lune.
La spiaggia di Fetovaia è affollatissima, circolano bagnini nerboruti con tanto di venditore di Cocco bello, proprio come allora sulla riviera adriatica. Ci manca soltanto l’aereo che passa e rilascia qualche volantino pubblicitario della discoteca vicina.
“Il secamerde”, come chiama il marito il sole, lancia i suoi raggi roventi sopra i pini marittimi e sulle loro teste; è quasi mezzogiorno, meglio mettersi all’ombra.
Con la nipotina di cinque anni si allontanano verso una panchina ai piedi di un curvo pino marittimo, quasi il suo tronco è sdraiato per terra.
Il paesaggio degli alberi è bello, pini marittimi, qualche cipresso, buganvillea ormai sfiorite, ma rigogliose di verde, canne di bambù, cactus, oleandri, plumbago. Diverse tonalità di verde, di blu, di azzurro; molte sfumature anche di bianco, dalle nuvole alla spuma delle onde.
La natura è perfetta nei suoi abbinamenti; è l’uomo, l’ultimo essere vivente apparso sulla terra, che non ci sa fare, anzi, sa proprio disfare.
Nunzia e Gio hanno affittato una casetta e la vedono dalla strada. Si sale dalla spiaggia attraverso un sentiero a scale di pietra, cinque minuti e ci sono.
“O, bello! “- dice lei entusiasta del bilocale molto romantico, di sistemazione recente, arredato nel gusto toscano con le travi di legno e, come usano qui, mattonelle di cotto fra una e l’altra; alle pareti dipinti classici, con paesaggi toscani e poi una serie di cornici con stupendi francobolli da tutto il mondo messi sottovetro. Alla stanza da letto si accede con una scala a vista perché situata in un soppalco a ringhiera molto d’effetto. Sulla camera soppalco si apre un bel balcone che guarda il mare. La casetta piace a tutta la famigliola che stasera rientrerà dalle vacanze, anzi la nipotina vorrebbe rimanere, ma non è previsto, i nonni si fermeranno da soli per ben due settimane. Quindici giorni di libertà, anche se vigilata, per sprizzare fuori dalle orecchie tutti i pensieri dell’anno.
Sono contenti; loro amano molto le case e gli arredamenti e si mettono subito in ascolto delle persone che hanno vissuto nella casa pensando a chi l’ha progettata ed arredata, tant’è che in una delle prossime vite, fra un progetto e l’altro, sognano di fare gli architetti.
(lui dice al lei di non rubargli le idee e lei viceversa lo ribatte a lui).
Persone sicuramente gentili, amanti dell’arte quelle che hanno creato questo romantico nido al 105 di via Fetovaia; si capisce anche dalle stoviglie, dal fine servizio da tè, dalla cucina con caminetto a legna, da qualche mobile antico e da certi particolari come la lavatrice nascosta dietro una bella tenda nel soppalco proprio sopra il bagno per utilizzare ovviamente lo scarico dell’acqua. Risulta un po’ limitato il bagnetto, ma i muri portanti hanno di certo condizionato le modifiche.
I signori sono soddisfatti; da quando non vanno più in vacanza in tenda, cercano di trovare casette a loro somiglianza: amano leggere, dipingere ed un ambiente bello è ciò che fa la differenza; non crediate comunque che siano dei borghesucci rassegnati, sognano sempre di girare il mondo a piedi scalzi, di salvare l’umanità con la bellezza della letteratura e dell’arte.
“Fate buon viaggio” - si salutano verso sera con i loro figli e nipoti. Sono felici di restare, mentre la famigliola non sembra molto contenta di dover rientrare a casa per lavorare.
Elbamente
Davanti ai miei occhi è la sabbia grigia, beige, con sassolini neri, minuscoli. Al di là del chiacchierare della gente, il silenzio dei pini marittimi. Fastidioso è il tictac di chi gioca a racchette sulla spiaggia.
Non capisco la mia malinconia. Un tempo avevo l’utero retroverso, oggi è il mio stomaco che ruota verso qualcosa che mi opprime. Verso che cosa? Verso pensieri di-versi dalla vacanza. Vorrei essere il fiore di quel plumbago, azzurro e indifferente fra gli alti bambù e gli ulivi maltenuti. In inverno riposerei ascoltando il rumore del mare nel vento, poi, in primavera sboccerei con i miei fiori dal bianco all’azzurro al lilla e per tutta l’estate confonderei i miei celesti con l’azzurro del cielo.
Nella nostra casa in Corsica pianteremo cinquecento plumbago ed ogni giorno d’estate ci sveglieremo dentro l’azzurro pensando d’essere in Paradiso.
Passano le persone con lettini, ombrelloni, passeggini, bambini: e che vadano pure ad ammucchiarsi in spiaggia su quegli odiosi lettini in alluminio che vendono persino in Val Brembana, stonano così tanto; io emanerei un decreto che i lettini li mettano solo sulle navi da crociera e li vietino assolutamente sulle spiagge di sassi e dorate di fine sabbia: qui dovrebbero esserci solo persone nude e mute.
Proprio non capisco i miei occhi che si riempiono di lacrime, sono in vacanza, sdraiata sulla spiaggia di Fetovaia, luogo rinomato dell’Elba (mah...non so, non mi piace, troppo affollato, sono sicura che navigando dal mare, troveremmo deliziose solitarie calette. Mi piacerebbe essere una velista o una sommozzatrice come la Sylvia Earle, capire il mare, non averne così altissimo rispetto, una così profonda paura, una così seria riverenza. Nuotare, nuotare, nuotare insieme ai pesci, alle alghe, senza timore; arrivare a spiagge in piccole insenature, star lì a leggere poesie e a piangere le persone che non rivedrò mai più. Ma che bello, soprattutto che ridere. (!?)
Fondamentalmente (che odioso avverbio), sono una persona tendente al depresso. La felicità per me è il punto convergente di talmente tante linee che raramente mi è capitato di dirmi:” o, sono proprio felice.”
Sei assurda, sono assurda. Siamo assurdi noi umani. Qual’ è l’etimologia dell’aggettivo assurdo?
ASS: doppia s che conferma l’assurdità della situazione (una sommozzatrice che si toglie le bombole, estrae un libro di poesie dalla muta, legge un paio di strofe e piange) ...
A privativo che conferma la mancanza di qualcosa...URDO-URLO, UR come una qualche divinità islandese...DO...prima o ultima nota musicale?
Quindi urliamo a squarciagola ASSURDO in do maggiore.
Dai ci sei arrivata vicino: assurdo c’entra con surdus, qualcosa che stona, il riferimento alla nota musicale ci sta...
Ci sta. Come mi risponde Federico quando gli chiedo” ti è piaciuta la pasta? “E lui:” Ci sta”
Ci sta.
Marciana
Il nome non m’ispira.
E dai con questa fissa dell’etimologia! Certo che la tua insegnante di latino e greco, cara insegnante Lucia, ha lasciato un imprinting non indifferente sulla tua personalità.
Sì, lo ammetto, è così. Marciana si fa risalire all’epoca romana, forse un certo Marcius l’ha fondata. Oppure deriva da marcidus, riferendosi a situazioni agricole, pomodori marci, uva marcia...mah!
A Marciana cerchiamo un santuario: la Madonna del Monte. Sempre il sempre presente Napoleone ebbe qui un incontro con la sua amante polacca, non ho voglia di andare a vedere come si chiamava. Doveva essere una bella donna, ci fece anche figlio con lei, Alessandro. Calma, non mi sono spiegata, non è che l’ha avuto in chiesa l’incontro, ma lì vicino in un cosiddetto romitorio dove anticamente vivevano certi eremiti.
Il luogo lo troviamo a fatica, nonostante il richiamo erotico della faccenda. Finalmente scopriamo che si sale attraverso una larga mulattiera immersa nel verde. Tra l’altro eravamo appena stati lì vicino a dare un occhio alla Fortezza Pisana e nessuna segnalazione ci indicava l’inizio del sentiero che ci avrebbe portato al santuario. Così dopo essere scesi a Marciana Marina, sempre da marcidus, ma questa volta c’entra il pesce...siamo ritornati sui nostri passi.
Imbocchiamo la mulattiera abbastanza in salita, “la caalera”, dice Gio’. L’intero tragitto ha una magnifica vista sul mare.
Sulla strada incontriamo persone che sono già di ritorno; in effetti è quasi mezzogiorno e noi stiamo salendo con un po’ di fatica. Incrociamo due francesi d’una certa età, mi dico, se ce l’hanno fatta loro, coraggio...mangio una caramella, bevo un po’ d’acqua, penso, che cavolo di pianurotta sono!
Gio’ è molto più avanti, io seguo, non a ruota evidentemente! Il paesaggio è piacevole, tira un’arietta stupenda anche se fa parecchio caldo.
Quando arriviamo ci si presenta l’aspirante Santuario, restaurato malissimo, “reboccato” da muratori veloci, come si direbbe a Berghem... hanno lasciato trasparire due pietre antiche...no, tre...Sul romitorio adiacente, spicca l’insegna gialla e nera dei vecchi punti telefonici...deve aver chiamato da lì la sua polacca Napoleone: “pronto, cara, sono Napoleone, ti aspetto, non tardare…”
Hahahahah, confondiamo un poco le carte della storia, è divertente! Ma no! Non sapete che Napoleone comunicava con il telegrafo ottico? Ne commissionò vari, portatili, da usare sul campo di battaglia...del resto anche il letto può essere a volte un campo di battaglia... Il luogo comunque non è visitabile, dentro pare ci sia appunto la stanza da letto dell’imperatore e lo studiolo anche se lui dormiva sempre nella sua tenda da campo che avrà fatto montare nel bosco e all’arrivo della bella polacca si sarà ritirato con lei nel romitorio/amatorio. Sulla parete esterna c’è una lapide con scritto il come ed il perché, si chiamava Maria Walewska e non era una polacchetta qualsiasi bensì una contessa. Tra l’altro leggo sulla guida che qui vicino, località Poggio c’è una casa museo, casetta Drouot, risalente al 1751, riaperta dopo duecento anni con tutti gli arredi del tempo, con personaggi reali che interpretano in costume d’epoca Napoleone ed il suo seguito: incredibile, no, grazie, pensiamo sia interessante, ma la visiteremo un’altra volta. Torniamo al Santuario: «Le mura di detta Chiesa odorano di viole, ove fregati i fazzoletti, e particolarmente dalla parte della campagna, acquistano il colore giallo e conservano per molto tempo il suddetto colore.» (Giovanni Vincenzo Coresi Del Bruno, 1744). Questo scritto mi lascia un po’ perplessa, può darsi che allora l’edificio si presentasse con un altro fascino. All’interno il più bel dipinto è un affresco, come dice la guida, probabilmente del Sodoma pittore quattrocentesco, scuola senese e mi sa che dal soprannome non deve essere stato
uno stinco di santo. Però, scusa, invece di entrare e pregare per la pace nel mondo, perché i campi profughi in Libia siano smantellati, per il terremoto in Messico, per l’uragano Irma...vergogna, divaghi su questioni extra religiose. Non sei brava, non sei buona, non sei attenta.
Ce ne torniamo indietro pensierosi, ma cosa pensate, pensierosi per dove andare a pranzo. Ripercorriamo la mulattiera con le stazioni in cemento di una via crucis che prima avevo fatto finta di non vedere per non rovinare il paesaggio. Penso al pittore Giuliano Boffelli: lui sì che avrebbe dipinto magnificamente queste bruttissime Santelle… Accidenti, sono una rogna. Non mi va bene niente. Guardate che sono davvero brutte! Chiedete a Gio’...
Pensiamo al pranzo.
Adiacente al parcheggio, dopo una piccola discesa incontriamo un’osteria con una vista magnifica. Il proprietario ci saluta con un certo fare da toscanaccio vissuto e forse anche un po’ bevuto. Mi squadra in una certa maniera e si siede proprio in un tavolo da dove sento i suoi occhi addosso. Mi da fastidio, probabilmente è il suo modo ospitale di accogliere le persone. Va be. Ordiniamo: Gio’’ linguine allo scoglio, io cozze e vongole al curry. Mitico piatto. Non prendiamo vino, ma il pranzetto ci rimette in sintonia con il mondo.
Ci alziamo, paghiamo e ce ne andiamo sentendo una coppia dal tipico accento genovese, fare i complimenti per il fritto misto al tipo della trattoria che ribadisce di aver sempre fatto il pescatore e di sapere bene come si cucina un signor fritto misto!
Napoleon, Napoleon, Napoleon.
Venire all’Elba vuol dire inciampare ad ogni poco in Napoleone Bonaparte.
La famiglia Bonaparte era originaria della Firenze ghibellina; in seguito, un antenato di Napulio, così veniva chiamato Napoleone dalla sua mamma Letizia, emigrò in Corsica, cioè attraversò il mare.
Qui all’Elba, Napulio è evocato in ogni cosa e luogo: fonte Napoleone, sedia Napoleone, Hotel Napoleone, dolce Napoleone, bagno Napoleone, grappa e birra con il suo nome. Wc con il suo nome… eccolo Napoleone che cala i pantaloni e si siede sul water nel corridoio della Palazzina dei Mulini dove abitò durante il suo soggiorno all’Elba insieme alla sorella Paolina ed alla madre. Il water è praticamente un buco, al primo piano, che si apre sul prato sottostante… si sposta un coperchio e ci si accomoda. E’ situato fra due camere da letto, ma può servire anche per gli ospiti invitati nel salone delle feste.
La Palazzina è un museo dove sono esposti arredi copia del tempo, le tende da campo di Napoleone, la sua biblioteca, la sua tazzina da caffè. La palazzina era la sede pubblica mentre la sua vita privata si svolgeva a Villa San Martino. Si tratta di due musei molto poco tenuti dove si respira un’aria stantia. A Villa San Martino troviamo tutto chiuso, due anziani signori gestiscono due chioschi ammuffiti dove sono in vendita busti di Napoleone di ogni misura. Sui tetti sventola la bandiera ideata dal Principe durante il suo principato elbano: tre api su sfondo bianco e rosso forse a significare la laboriosità degli abitanti.
Napoleone va a cavallo da una residenza all’altra. La sorella Paolina trascorre molte ore in giardino dove ha fatto piantare arance e limoni portati da Napoli.
Anche Napoleone ama stare nel giardino della Palazzina dei Mulini che termina sulla scogliera e guarda il canale di Piombino; gli piace scendere anche al bagno soprannominato poi bagno Napoleone e tuffarsi dagli scogli. In realtà egli sta meditando come fuggire dall’isola. Lo attendono i Cento Giorni.
L’ex imperatore era un militare tutto d’un pezzo. Non faceva trasparire la sua ansia mentre cavalcava verso il nord dell’Elba e da Chiessi guardava con non troppa nostalgia la sua Corsica, ile de beauté diciamo noi, ma lui la definirà “una verruca sul volto della Francia”. Certamente per uno con idee di grandezza come lui l’isola natia dovette stargli davvero stretta. Punito dalla Storia, il piccolo grande uomo Bonaparte non tornò mai più ad Ajaccio. Padrone di mezzo mondo, finì padrone d’una minuscola isola, quasi uno scoglio, l’Isola di Sant’Elena. Già, un uomo di isole, chissà come si sentiva dentro, credo isolato e infelice, questa è l’idea che mi sono fatta di lui e qualcosa trapela da certi suoi scritti, fu anche aspirante scrittore e di certo un gran lettore. I francesi, affetti da atavica grandeur, l’hanno alla fine voluto a Parigi, nel Pantheon, con quella megalitica tomba in porfido rosso. La figura di Bonaparte rimane ancora oggi per molti aspetti indecifrabile e contraddittoria nonostante la sua invenzione del Codice Napoleonico, la sua idea di Europa, i suoi ideali rivoluzionari, la separazione dello Stato dalla Chiesa. Confermi Paolina? O forse dovremmo chiederlo alle sue due mogli ed alle innumerevoli amanti?
Noi ci allontaniamo dall’itinerario Napoleonico e ci dirigiamo verso Porto Azzurro: una bella piazza, un salotto! Ci affascina il porto dove sono ancorate barchette ed anche barche di una certa stazza, ma non ci piacciono proprio questi borghi di mare turistici, un po’ tutti uguali.
All’interno, il vecchio paese è dedicato ai turisti con negozi e bancarelle. Non manca il ceramista doc ed anche la ceramista doc. e negozi di pietre dove si vendono sassi che probabilmente non sono neanche elbani, ma vogliono ricordare la natura mineraria dell’isola. Prendiamo un gelato seduti nella grande piazza ed osserviamo il via vai della molta gente che l’affolla.
Pensiamo di andare verso Cavo, ma ci rendiamo conto che è un po’ lunga questa strada attraverso boschi e piantagioni di vite.
Ritorniamo sui nostri passi per fare un giretto a Capoliveri, più in là le miniere di calamita chiuse nel 1981: mi sa che qui faremmo impazzire l’ago della bussola.
Arriviamo a Seccheto, è ormai sera e ci infiliamo in un ristorante proprio sulla strada. Qui fanno lanche a pizza, davvero buona anche se cucinata in un forno elettrico. Io vado sul pesce spada alla livornese. Ci ritorneremo ancora altre volte, il posto ci piace; a me ricorda la Sirena, la trattoria di mia zia Maria a Salò: anche la signora alla cassa potrebbe essere la Maria negli anni Sessanta. Mi perdo a parlare con Gio’ dei miei cugini “lacustri”, la Maria li ha lasciati con un certo patrimonio, in fin dei conti s’è impegnata molto ed ha vissuto anche sempre con la cognata Elvira. Oggi chi lo farebbe? Cara zia, sei morta nei giorni di Federico Maria, lui nasceva il 29 settembre e tu il primo ottobre ci lasciavi. Nel 1998 all’età di settantaquattro anni di cui quattordici passati inferma in un letto.
Sono queste delle piccole umane storie se paragonate alle imprese napoleoniche e non finiranno di sicuro in nessun libro di Storia! Noi ci accontentiamo di tenerle nello scrigno del nostro cuore per meditare sul senso della vita e della morte.
Per la verità non c’ interessa proprio l’avventura napoleonica, ma qui all’Isola d’Elba non puoi fare a meno di pensarlo, Napulio, piccoletto, ma accidenti, che personaggio: lo descrive bene Joseph Roth, uno dei miei scrittori preferiti, nel suo libro intitolato appunto I Cento Giorni che rileggerò, quando, non so. In questi giorni sono passata da Roberto Trussardi a Simenon, a Saramago, a Curzia Ferrari, a Kafka, a Pavese, a Proust.
No, no, non ci siamo. Sono una lettrice scompigliata come questi pini marittimi oggi che c’è molto vento e le loro chiome si gonfiano e paiono dover decollare da un momento all’altro.
ISOLA
I nsicuro
S alpare
O
L iberatorio
A pprodo?
(squalo balena)
Passerotti pescatori
Oggi ho dei pensieri. Più del solito.
Quindici settembre; mio nonno Leonardo mi pare sia morto proprio in questo numero di giorno di settembre. Mi rivedo: io e mio padre fermi al passaggio a livello di Canneto sull’Oglio per andare al funerale del nonno. Anno? Non ricordo.
Oggi mi sono alzata giù di morale: non ho nulla in particolare, ma tutto in generale. Ritorniamo a Marciana Marina: c’è aria di fine stagione; la gente è soprattutto del luogo, fa la spesa, chiacchiera. Qualche ragazzo con zaino in spalla gironzola in gruppo: alunni usciti prima da scuola o mai andati.
Volevo comprare qualche regalino, ma Gio’ non è in vena, dice che mica dobbiamo portare sempre qualcosa a tutti. Va be, è lo stesso.
Quattro passerotti prendono il sole su un sasso in riva al mare, saltellano, saranno forse passerotti pescatori. Di fronte a noi un porticciolo con molte barche” utilitarie”, diverse da quelle di Porto Azzurro. Sì, preferisco qui. A destra una Torre Pisana come al Giglio, leggermente più bassa.
Nuvole gentili solleticano il sole.
Isole
Garibaldi se la comperò un’isola. Caprera. Ci visse per vent’anni facendo il contadino.
Io non so cosa me ne farei di un’isola intera.
Certo le isole sono affascinanti, sembrano delle vie di fuga. Nessuno potrà raggiungermi sull’isola, poi giri l’angolo all’Elba e senti dire:” ma quella non è la Busi?”.
Ma che Busi del cavolo. Io sono Robinson Crusoe e non riferisca a nessuno che mi ha incontrato.
Qui, nell’Arcipelago Toscano, sono sette le sorelle: Elba, Capraia, Giannutri, Pianosa, Montecristo, Gorgona, Giglio. Io sceglierei Capraia, la più selvaggia. Costruirei una barchetta di carta e sognerei di remare toccando tutte le insenature e le calette. Donna di mare non sono, né mai lo sarò, non saprei che farmene di una barca e se ci penso seriamente anche di un’isola. Ma allora perché questa voglia d’ isolamento, questa insofferenza di dover ritornare sulla terra ferma? Questo desiderio che ho sempre di voler salpare verso un’isola?
Perché l’approdo su un’isola mi sembra sempre tanto liberatorio!
Quel sottile senso d’angoscia che sempre mi accompagna, eccolo oggi qui, seduto al bar con le gambe accavallate e gli occhi torvi.
Ieri qui sulla spiaggia di Fetovaia, erano circa le diciassette, hanno condotto un uomo annegato, un pescatore che è scivolato dagli scogli. Il mare grosso l’ha sbattuto qui e là, probabilmente, battendo forse la testa, era svenuto. Si tratta di un signore di Ferrara in vacanza con la moglie.
Non faccio che pensare alla donna, gridava aiuto mentre il suo uomo stava annegando. Il dio Poseidone ha voluto la sua vittima, noi dobbiamo capire che siamo dei poveri mortali, mentre lui è immenso e infinito. Un Dio.
La vita continua sull’isola. Il distributore di bombole passa con il suo camion di rifornimenti, ritira i vuoti, lascia i pieni.
La signora del bar prepara panini alla contadina ed insalatone con il tonno.
Bevo un caffè decaffeinato lungo.
Il marocchino vende copricapo e teli da spiaggia. I bambini emettono i loro gridolini e non sanno neppure d’ essere al mondo.
Una signora segue in auto l’ambulanza che porta suo marito all’obitorio dell’ospedale di Portoferraio.
Le onde si susseguono infinitamente. Oggi il mare è agitato, domani lo sarà di meno.
Vivere su un’isola è diverso che vivere sul continente, ma morire sull’isola è uguale come morire sul continente.
L’eremita Bartolomeo.
Molti eremiti un tempo si chiamavano Bartolomeo. Andavano e venivano dalle regioni italiane e anche dalle isole dato che ce n’era uno appollaiato anche qui all’Elba, non lontano dal monte Capanne.
Oggi facciamo una camminata nella cosiddetta macchia mediterranea, prendendo il sentiero detto del Tramonto che da Pomonte porta a Chiessi. Non è una via difficile, segue il mare ad una certa quota. A Chiessi beviamo un caffè in un luogo dove vendono anche i giornali. Compro il Corriere, con l’inserto; forse sarebbe stato meglio acquistarlo dopo, ora devo tenerlo in mano.
Chiessi: qui veniva in vacanza mio cugino Cesare Busi e capisco quando mi diceva che ci stava da dio. Ritornava abbronzatissimo, lui aveva già una carnagione scura; ci soggiornò con sua moglie credo e poi da ultimo con la sua compagna. Penso sia venuto anche molte volte da solo, in vespa. Sicuramente era in questa edicola che acquistava il Manifesto. Cesare era un uomo buono, pensava che la vita fosse da prendere alla leggera, come la brezza di scirocco che alza le gonne ed arruffa i capelli: semplice, si possono mettere i pantaloni ed i capelli si pettinano. Lui era il preferito di nostro nonno Leonardo, si capivano. Come il nonno, anche Cesare s’è ammalato di alcool; tormentati erano e cercavano compagni di cammino che potessero alleviare la loro angoscia, l’alcool non è stato un buon alleato.
Non hanno mai trovato l’eterno che cercavano come invece pare abbia intuito Bartolomeo, l’eremita che si accontentava di qualche offerta da parte dei pellegrini che da qui passavano per arrivare al santuario della Madonna del Monte.
Ci incamminiamo per il sentiero dove la freccia dice: eremo di San Bartolomeo. Man mano che saliamo, accidenti proprio ripido, il paese di Chiessi si allontana e si allarga la veduta della baia. Notiamo dei terrazzamenti in disuso, un tempo coltivati a vitigni. Attraversiamo zone bruciate dove alcuni alberi carbonizzati non hanno né parole né chiome per salutarci. Ci sorpassa un ragazzo atletico che saltella sul sentiero come uno stambecco.
Ci siamo portati il pranzo al sacco e qualche bottiglietta d’acqua. Provvedo subito a bere ogni dieci metri. Gio’ mi da un super distacco. Certo, loro, gli alpini, i camminatori veri...io invece sempre indietro. Se ci fosse qui Massimo Bettinelli sarebbe andato e tornato dall’eremo già almeno due volte. Io però, non che abbia paura, ma Gio’ non lo vedo più. Il sole non è intenso, ma comunque picchia; uffa, ma dove sei… Finalmente arrivo nel punto dove si è fermato, mi dice di fare dei passi lenti e seguenti, insomma, io, in piano, con le mie corte gambette, vado, ma in salita con questo po’ di peso che devo trascinare, sono una frana. Attenta! C’è un passaggio difficile, il sentiero è mal tenuto, le pietre rotolano!
Dopo un paio d’ore arriviamo: sarà quello l’eremo? Nessuna indicazione, solo un bel mucchio di pietre risalenti al dodicesimo secolo E bravo Bartolomeo l’eremita, hai preso nome dall’ apostolo di Gesù che fu scuoiato: Michelangelo nella cappella Sistina lo raffigura con la sua pelle in mano.
Di questo eremita Elbano invece non si sa nulla?
Si sa di più di un altro santo, San Cerbone che fu vescovo di Populonia e che avrebbe dovuto essere sbranato da un orso, ma l’animale, sentendo odore di santità, gli leccò i piedi. Quando morì fu trasportato qui all’eremo di san Cerbone dove arrivò, si fa per dire, sano e salvo nonostante una potente libecciata. In realtà era fuggito già qui tempo prima per seminare un Longobardo che lo voleva fritto. Ora le spoglie di san Cerbone si trovano a Piombino, nella cattedrale a lui dedicata. Ovviamente molti furono gli eremiti che assunsero il nome di Cerbone che abitarono il romitorio a metà strada tra i paesi di Poggio e di Marciana. Cosa interessante per noi: san Cerbone è festeggiato il 10 ottobre giorno della nascita del nostro nipotino Nicola e del suo papà Alberto.
Ma torniamo alla nostra camminata. Ci fermiamo a mangiare un panino. Mi si rompe un dente, così mi tocca pensare al signor dentista, il vichingo. Cercherò di masticare come posso finché dovrò rincontrarti, dottore! (Mi piaci e non mi piaci! Potranno mai i dentisti essere piacevoli del tutto?)
Riprendiamo la via verso Pomonte. Scende un po’ ripida, poi più pianeggiante, ma sempre al sole. Camminiamo altre due orette.
Ci sorpassa una giovane donna in mountain bike, molto sicura di sé, dice che il sentiero non è un gran che. Alla faccia! Le dico” complimenti, tutta in bici?” E lei “sì perché pensa forse che la bici l’abbia trovata nell’eremo?” Simpatica, non c’è che dire, proprio simpatica.
Tocchiamo terra con male ai polpacci, ma ci rifacciamo subito riposando una mezz’ora su una panchina nella piazza della chiesa di Pomonte.
Il soffitto
di mattonelle di cotto
e travi di legno,
ci guarda
mentre ci amiamo,
oggi come ieri,
come allora,
come sempre.
Nella nostra semplice vita
l’amore ha il posto del capo
sincero, vitale, trascinatore,
autorevole e dolcissimo.
Noi siamo noi
così è stato
così è, così sarà.
Noi.
Autogrill
auto che transitano
andando e ritornando
punto di felicità
istante dell’andare
istante del ritornare.
Autogrill del tempo nostro
bisogno di rifocillarsi
di andare in bagno
di fare rifornimento.
di osservare la gente.
Pompe di benzina
gasolio
nessuna colonnina elettrica
ognuno vuole
andare venire
con la propria auto
più grande
sempre più grande
ingombrante
inquinante.
Personaggi contemporanei residenti all’Elba che avrei voluto conoscere ed intervistare…
Carlo Eugeni
Roberto Ballini
Umberto Segnini
Simona Giovannetti
Pino Fabbri Insula
Italo Bolano
Simona Bordogoni
Vulca
Luca Polesi
Anette Lang
Unzipò
Il ritorno
Ciao Isola d’Elba, non offenderti, è stato un certo piacere, ma i libri guida che ti riguardano, compresi i fogli illustrativi di questo o quell’itinerario fra i tuoi monti, li regalerò a qualcuno che so amarti molto. Per quanto mi riguarda, non essendo donna di mare e non potendo scoprirti attraverso le tue coste, il che, come ho già detto, sarebbe il modo migliore per comprenderti, non metterò più piede sulla tua terra. Troppa gente! E siamo a settembre, chissà in luglio e agosto!
La spiaggia di Fetovaia ha tre grandi difetti: per prima cosa, poca spiaggia libera, con tre stabilimenti balneari, dove vuoi andare!? Secondo, alle diciassette il sole di settembre lascia la spiaggia tutta in ombra. Troppo presto. Quindi, siccome il sole tramonta al di là, non si vedono i tramonti. Ma come! (Andiamo di sera verso Chiessi per osservarne almeno uno, di tramonto, là con lo sguardo verso la Corsica.) No, no, troppo difettosa questa spiaggia, come dire è una bella donna, ma meglio che tenga la bocca chiusa. Ripeto, non averne a male, Elba, è stato bello comunque soggiornare qui; in vacanza, del resto, è piacevole dappertutto, per me poi: lontana dal banco dei pegni dove secondo dopo secondo ho “impegnato” già ben trentotto anni della mia esistenza dentro una routine che, se osservata da una qualsiasi isola, fa davvero accapponare la pelle, assentarmi per due settimane! Davvero più di una libera uscita, più di una libertà vigilata. Una fuga!
Domani sarà l’ultimo giorno che dormiremo qui, in questa dolce casa che è la cosa più bella di questa nostra vacanza, oltre ai libri che abbiamo letto, oltre ad alcuni documentari sull’arte Scandinava trasmessi da Rai cinque. Coraggio. Hai degli impegni, delle responsabilità. Le manette ti attendono, ma, ne sono sicura, un giorno troverai la chiave e le appenderai ad un chiodo insieme al calendario del quale non girerai proprio più le pagine, ma seguirai istintivamente il ritmo dei giorni nell’alternarsi delle stagioni, libera, libera, libera!
Il diciassette di settembre 2017, salpiamo da Porto Ferraio e ritocchiamo terra sul continente con un discreto malessere che non ha nulla a che fare con il mal di mare. Non parlo, sono triste. Guardo dal finestrino dell’auto, ma vedo soltanto scorrere i miei pensieri. Penso che se dovessi morire voglio la camera ardente nel mio atelier di pittura, la mia Opificina, mi spiace per i Busi, mi spiace per i Carminati, mi spiace per l’isola d’Elba … voglio essere cremata e che sulla pira mettano tutti i miei dipinti “avanzati” e le mie cosucce scritte e che le mie ceneri siano disperse là dove tu sai, amore mio, e se non lo farai, muterò il mio amore per te in odio. Non capisco, quindici giorni di meritato riposo e torno così…o, ma non sono su un cellulare della polizia che mi sta trasferendo da un carcere ad un altro! Dispiaciuta sono, mi rendo conto dell’egoistica follia della mia ossessione, ma l’angoscia prende il sopravvento e dilaga, dilaga, annullando la mia personalità. Ed è sempre stato così rientrando dalle ferie. La rabbia di mia madre che, capisco, rimaneva sola a casa con i suoi di pensieri, più tetri dei miei. La morte di nostro padre è stata una tragedia per noi. Io non ho mai accettato di dover rinunciare ai programmi della mia adolescenza. Eppure, milioni e milioni di persone mutano ogni giorno la propria vita in seguito a delle disgrazie. Va bene, ci penso, è così, eppure molte volte nella mia vita ho provato questa sensazione opprimente, non vedo che il buio della notte fonda, senza stelle, senza luna. Non vedo quanto di bello ho realizzato in questa mia esistenza! E non mi resta che pregare:” Signore, quale Signore, quale Dio… aiutami, ti prego, abbi pietà della mia povera vita e fa che l’alba giunga presto a rischiarare i miei pensieri!”
Dura per un certo tempo il buio totale. Poi resta un buco, come se un pezzo di meteorite fosse precipitata sul mio cuore: ecco, tolgo il pezzo, fa male, c’è il buco, ma passerà. Continuo la mia esistenza deglutendo, scacciando i cattivi pensieri, dicendomi, troverò anch’io dicerto la mia isola.
La mia isola.
Viaggiare, conoscere nuove persone, esplorare nuove culture e paesaggi mi rende felice, è come se trovassi la lunghezza d’onda giusta della mia vita; per questo amo le lingue straniere, vorrei impararne molte. Per questo nostra figlia Marta è felice quando parte. Se potessi, davvero viaggerei sempre, scrivendo, acquarellando, se potessi. Invece sono stanziale, contro la mia personalità di nomade del pensiero e delle esperienze. Convenientemente stanziale. Opportunamente stanziale.
Così è stato, così ho costruito la mia vita.
Se guardo il mio amore ed i miei figli penso d’essere stata molto fortunata.
Se guardo l’ambiente in cui sono costretta a vivere, no, proprio no, mi sta troppo stretto!
Qual è il giusto pensiero?
Leggere.
Leggere è viaggiare.
Posso leggere, viaggiando per il mondo senza bagagli!